La libertà di Francesco Salviati e gli omosessuali nel Rinascimento italiano
Siamo ormai da tempo abituati a leggere nell’arte del Rinascimento italiano percorsi in cui si incontrano personaggi e tematiche legati all’omosessualità. Di fatti a molti è noto quale fu l’orientamento sessuale di Michelangelo, di Leonardo da Vinci, del Sodoma (Giovanni Antonio Bazzi), che questo nome adottò con orgoglio, di Benvenuto Cellini, che vi fece allusione nella sua Vita, e di altri ancora.
Un aspetto che invece non è stato forse ben analizzato, se non per casi episodici, è il grado di consapevolezza, da parte di questi individui, di far parte di una sorta di comunità altra, certo sotterranea e in uno stato decisamente embrionale.
Una sottocultura che, in questo preciso caso, ha le sue ascendenze nella fiorentina Accademia neoplatonica fondata nel 1462 da Marsilio Ficino su spinta di Cosimo de’ Medici, alla quale si unirono anche Giovanni Pico della Mirandola e Angelo Poliziano. In quel contesto all’omosessualità si cercò di dare una giustificazione attraverso il riferimento a diversi scritti di Platone, si parlò così dell’ideale dell’“amore socratico”. Non si trattava certo di una comunità ante litteram, non vi era un’intenzione di denuncia ad un’opposizione, era bensì il “pretesto”, pur nobile, per mostrare filosoficamente un’altra faccia del dogma.
Le vicende personali di diversi personaggi di cui ci rimane traccia nella storia hanno dimostrato che, ad un certo punto (ben al di là dei privilegiati, i quali potevano avere una maggiore coscienza di sé grazie a più libertà, protezione e mezzi), ci furono uomini che aderirono a un’idea allora davvero stramba, ma molto precisa. Questi fatti non hanno precedenti nella storia, e se calibrati alla percezione che la società aveva dei buggeroni (così venivano chiamati i “sodomiti”) e alla repressione severa delle leggi secolari e dell’Inquisizione del tempo, hanno davvero dello straordinario.
Ci furono amori tra uomini che oggi possiamo, ad esempio, leggere in due lettere di Torquato Tasso (il suo per Orazio Ariosto, nipote del celebre Ludovico, 1576, lettere a monsignor Luca Scalabrino, a sua volta invaghito del Tasso di “amor concupiscibile”), e in questi casi si parla di relazioni segrete che non furono “disturbate” dalla società in quanto vissute privatamente o in una contenuta cerchia di amici.
Altri uomini invece fecero un passo avanti, non esibirono certo le loro tendenze alla società, ma cercarono in qualche modo di aprirsi alla socialità, condividendo insieme ad altri il proprio orientamento sessuale. Forse non si trattava già di una sottocultura militante, è bene precisare, ma in due episodi accaduti a Roma e a Napoli nel 1578 e nel 1591 (di cui abbiamo le documentazioni processuali) si evince chiaramente che due gruppi di uomini si formarono con lo scopo, sconvolgente per i tempi (e lo sarebbe stato ancora per secoli), di celebrare matrimoni tra persone di sesso maschile.
I primi matrimoni, molto sacrileghi, furono segretamente celebrati nella chiesa romana di San Giovanni a Porta Latina. Una volta scoperti, una decina di uomini furono presto portati al rogo, essendo questi chierici iberici senza nessuna nobiltà o protezione. I secondi, nella città partenopea, non simulavano un’accettazione da parte della chiesa, ma con ironia si celebravano a seguito di finte prammatiche del re e musica e balli, con gite a Posillipo e chitarroni di accompagnamento. A molti di loro – una comunità vasta composta dagli esponenti dei diversi strati della società, primi tra tutti prelati e nobili – andò meglio poiché nessuno fu condannato a morte, ma soltanto a pene come la prigione, la galera o l’esilio.
Bisogna riconoscere che questo è spingersi verso un oltre, e non un semplice rifugiarsi in una favola pastorale, nel pensiero libero dell’antichità, nella sconfinata e sensuale vegetazione della poesia greca.
Una premessa del genere è stata necessaria per introdurre una delle opere più scandalose del Cinquecento italiano, poiché non si tratta qui di semplici allusioni, del sensuale corpo statuario di un san Sebastiano, né di un patinato erotismo mitologico, che fu in voga (si pensi al Cupido che fabbrica l’arco del Parmigianino che mostra le natiche, Vienna, Kunsthistorisches Museum), ma di un’esplicita raffigurazione di un ménage à trois tra uomini. Un soggetto così spregiudicato da poter mostrare lo stesso livello di autonomia intellettuale e di riconoscimento di sé degli sfortunati sposi prima ricordati. Si tratta di un disegno di Francesco de’ Rossi, conosciuto come Francesco Salviati, pittore manierista toscano tra i più raffinati ed eleganti.
Il disegno è stato datato agli anni ’40 del ‘500 ed è conservato all’École Nationale Supérieure des Beaux-Arts di Parigi (Inventario E.B.A. n. 348, mm 170 x 155). Già il piccolo formato lo connota come un disegno preparatorio ovvero “di presentazione”, ma è più probabile che si tratti, visto il tema, di un’opera di uso personale, comunque prodotta per non essere diffusa, tra l’altro finemente realizzata con inchiostro bruno e acquerello.
Chi l’ha descritta in passato, negli inventari del museo come nella critica, ha trovato un certo imbarazzo nel constatare (spesso censurando) che si trattava di tre figure maschili in atteggiamento esplicitamente sessuale, poiché ciò non è evidente soltanto nella totale nudità degli uomini raffigurati, quanto nel loro atteggiamento e “raggruppamento”.
Si è cercato così di dare una spiegazione mitologica al tema, considerando l’uomo barbuto di sinistra come Giove, ma evidentemente non c’è traccia di attributi iconografici per poter identificare nessun personaggio. Sono semplicemente tre uomini abbandonati all’edonismo. Niente altro si può desumere da questa immagine, se non che, forse, oltre ai corpi nudi in armoniosa sintonia, c’è un minimo di drammatizzazione della scena, in quanto è probabile che il giovane di destra, che è colpito dall’ombra, tenda lo sguardo verso lo spettatore, mentre cerca la mano del ragazzo al centro che è davanti a lui. È forse intento a scrutare l’arrivo di qualcuno che li potrebbe sorprendere? Ma anche queste non sono che mere congetture.
Nella scena con i tre uomini non c’è nessun travestimento letterario, nessuna allusione, piuttosto una rappresentazione concreta che non lascia adito a confutazioni. Ci sono nel Manierismo alcuni dipinti “per soli uomini”, e mi riferisco, quasi ironicamente, ai Bagni di Pozzuoli che Girolamo Macchietti dipinse intorno al 1570 per lo Studiolo di Francesco I a Palazzo Vecchio. In effetti in questo dipinto c’è un indubbio accento voyeuristico, ma è evidente che lo scopo dell’opera sia quello di celebrare un elemento della natura, seguendo un preciso e noto schema iconografico. Se ci volessimo comunque vedere un “certo” riferimento si tratterebbe di qualcosa di secondario al tema, del resto è ovvio che gli uomini alle terme siano nudi. Tuttavia con il disegno ben rifinito di Salviati ci troviamo davanti a un preciso gesto di volontà intellettuale, come quando Michelangelo, nelle sue lettere a Tommaso de’ Cavalieri, gli manifestava dichiaratamente il suo “grandissimo, anzi smisurato amore” (1533).
Nella sua arte Michelangelo ci ha lasciato la sensualità omoerotica dei disegni di Ganimede e la plasticità e gli atteggiamenti di tutti i corpi che ha rappresentato, creando anche un precedente al disegno del Salviati quando nel Tondo Doni (Uffizi di Firenze), dietro la Sacra Famiglia, rappresenta due gruppi di uomini nudi. Questi non hanno certo la spregiudicatezza di quelli del disegno di Parigi, ma allo stesso modo si accompagnano, apparentemente senza lascivia. Ci si è spesso interrogati sul significato di questa strana presenza all’interno di una Sacra Famiglia e le risposte sono state molteplici: dal riferimento culturale e letterario alla piena libertà di Michelangelo di inserire quel particolare in base al suo “gusto”, alla sua “maniera”, ed è bene ricordare che Michelangelo si formò nella fiorentina Accademia dei Medici, a stretto contatto con le idee neoplatoniche sull’amore e l’essere.