La Sirenetta rivisitata da Eco di fondo è interpretata da un ragazzo adolescente che crescendo si accorge di non sentirsi affatto come gli altri.
A volte ci vuole un “coup de théâtre” per rendersi conto di alcuni aspetti della nostra vita interiore in relazione alla società che ci circonda. Tremendo il modo in cui la finzione scenica giochi con le nostre coscienze per scuoterci da dentro e portare alla luce: paure, speranze, sensazioni nuove, vere e proprie rivelazioni. I greci la chiamavano kátharsis – purificazione- ma non è altro che l’immedesimazione che compie lo spettatore verso il teatrante. È questo ciò che ho provato nell’andare a vedere dal vivo una compagnia teatrale composta da giovani di belle speranze, Eco di fondo, che ha scelto di portare in scena un tema ancora poco esplorato sulle assi di un palcoscenico (per quanto vi sia accaduto veramente di tutto). La trama sulla quale si svolge questo spettacolo (al Piccolo Teatro Grassi di Milano dal 6 al 9 giugno, poi al Teatro di Roma l’11 e il 12 giugno) è quella della Sirenetta di Andersen, dove però il posto di Ariel è stato preso da un ragazzo con la coda come i pesci, mentre al posto di Sebastian e Flounder ci sono una Barbie bacchettona e di ristrette vedute con il suo Ken (anch’egli con qualche crisi di identità di tipo sessuale, ma a questo eravamo preparati da tempo…).
La scelta di questa fiaba di Hans Christian Andersen per parlare di un tema come quello dell’identità sessuale non è affatto casuale, se si considera che l’autore l’abbia molto probabilmente scritta in riferimento all’emarginazione con cui dovette fare i conti per via della sua omosessualità.
Al centro v’è per l’appunto un adolescente, che vediamo fisicamente nascere a inizio recita, il quale crescendo si accorge di non sentirsi affatto come gli altri, come quelli che hanno due gambe. Capisce allora che la “coda” con cui è nato (metafora azzeccatissima dell’esclusione) è la causa di questo sentimento e più cresce il senso di solitudine e più puzza la sua coda. Dopo aver sperimentato un mix di isolamento, psicodramma unito a sporadici episodi di sconosciuta felicità e perfino d’amore, si ritrova nella situazione di dover decidere se accettare il famoso patto con l’Ursula della situazione (interpretata qui da Giulia Viana che esegue in quel ruolo una performance degna di Marina Abramovich con un telo di plastica e un contenitore Ikea a mo’ di vasca, da vedere). Il ragazzo, che resterà senza nome per tutto il tempo come gli altri personaggi, può scegliere di ricevere finalmente delle gambe “normali”, come tutti, al prezzo di perdere la voce e di non poter gridare al mondo la propria identità. Proprio nel momento in cui questa stava affiorando! La storia ricorda per certi versi “Fa’afafine. Mi chiamo Alex e sono un dinosauro”, del regista e autore siciliano Giuliano Scarpinato, con una vena tuttavia più solenne data dal riferimento fiabesco e dai tocchi dark.
La poesia di questa delicatissima storia è resa possibile anche grazie all’aiuto di un colpo di regia, che da semplici teli di plastica e dalle luci riesce a ricreare una placenta, ora il mare, ora un velo dietro cui gli attori parlano al pubblico o ancora una tela su cui i fondali compaiono in un gioco di prestigio seguendo i gesti degli attori. Ben poco visibili i volti in questo spettacolo dove l’attenzione è stata diretta altrove, favorendo la plasticità del corpo e il suo movimento quasi coreografico.
L’epilogo si riallaccia al prologo proseguendo la lettera di addio ai genitori scritta da un figlio convinto che non potrà mai essere all’altezza delle aspettative parentali. Questo l’atto che ci riporta alla memoria tutte le vittime che, nel silenzio, si sono tolte la vita troppo presto perché illuse di non poter avere un posto in questa società incapace di comprendere e insegnare che cos’è l’amore. Amore che è soprattutto verso sé stessi e verso il proprio corpo.
Adelio Reghezza