È stato l’idolo di ogni donna alla fine degli anni Cinquanta. Hanno disegnato su di lui la figura del futuro marito, la perfetta incarnazione di quello che un americano doveva essere: alto, prestante, pronto a impersonare uomini dai valori tradizionali. La morte per AIDS di Rock Hudson ha rappresentato quindi uno scandalo epocale. La sua vita da omosessuale, anche se inaccettabile, come tutte le verità è diventata un vessillo. Il grande contrasto tra la bugia che ha raccontato al mondo e la realtà della sua fine obbligò tutti a una riflessione sulla emarginazione omosessuale.
Egli stesso, con la sua biografia, ha dato una completa rilettura della sua carriera. Marinaio, camionista, prima che attore, fu scoperto dall’agente (gay) Herry Willson. Un giro di compagnie tutte al maschile hanno connotato il suo ingresso a Hollywood. Persino il nome d’arte, Rock Hudson (si chiamava Roy Harold Scherer Jr), fu scelto durante un gay party.
Il suo sex appeal fu studiato a tavolino per il pubblico femminile dell’epoca: rifatti tutti i denti, palestra ogni giorno, massaggi, corsi di dizione. Dislessico, fece un enorme sforzo per migliorare la sua cultura.
Il primo successo fu il torbido film “La magnifica ossessione”, ma sarà “Il Gigante” che lo consegnerà al mondo dei solidi texani, contrapposto agli smidollati James Dean.
Verso gli anni Sessanta iniziò a concedersi alla leggerezza con commedie romantiche dai titoli con invoglianti doppi sensi: “Lo sport preferito dall’uomo”, “Il letto racconta”. In realtà nei film gli sceneggiatori si divertivano a burlare il pubblico, o forse a torturare Rock Hudson. Ad esempio aveva il ruolo di un pescatore che non ha mai pescato e viene scoperto. Che c’è di male? Non ho mai affermato di essere un pescatore! – dice come personaggio, mentre la donna che lo ha scoperto incalza: Non l’hai mai nemmeno smentito.
In un film è incinto, in un altro indossa una pelliccia e Sandra Dee lo scambia per gay. In “Non mandarmi fiori”, convinto di dover morire, esamina accuratamente tutti gli uomini che potrebbero andare bene per sua moglie assieme al suo amico.
Tuttavia il pubblico non poteva immaginare, anzi, lo considerava un’icona di charme maschile. Il triangolo era sempre uguale Tony Randall coprotagonista insicuro e pieno di ansie veniva affiancato a Rock Hudson sciupa femmine da convertire al talamo nuziale. Doris Day o Sandra Dee, ingenue, si convertivano, invece, a una pacata sensualità puritana benedetta dal matrimonio.
Pagò a carissimo prezzo questa fama ipocrita. Quando non potette più giustificare il suo celibato sposò la sua segretaria, Phyllis Gates, con cui rimase per tre anni.
Scoprì di essere malato nel 1984. Fu lui a raccontare dell’HIV al mondo. Non subito, persino da malato negò per più di un anno il suo problema dicendo di soffrire di anemia, di anoressia nervosa, di cancro al fegato. Emaciato si sottopose a tutte le cure possibili, fino a un viaggio della speranza per Parigi. Qui inevitabilmente confessò e l’ospedale francese si svuotò per paura del contagio. Per tornare negli Stati Uniti a morire non riuscì a trovare un aereo, perché nessuna compagnia voleva imbarcarlo. Dovette comprare tutti i biglietti di un volo. All’indomani della sua scomparsa i giornali lo distrussero, come se l’Aids fosse una punizione divina per gay. “Solo nei film era uomo”, “Liz Taylor cercò di guarirlo”, “Fuggiva da Hollywood per cercare l’amore nei bassifondi di San Francisco” erano alcuni dei titoli.
Tuttavia, grazie alla biografia che lasciò, molti malati decisero di non nascondersi più, seguendo l’esempio di Hudson e il fondo per la ricerca per combattere l’HIV si moltiplicò in un lampo. Se fosse rimasto a Hollywood invece che partire per Parigi probabilmente non avremmo mai saputo niente. Nascosto in una bella clinica, sarebbe morto tra lenzuola di seta pronte a coprire le sue piaghe che tanto infastidirono Nancy Regan da impedire al marito Ronald, il miglior amico di Rock Hudson, di aiutarlo in punto di morte.
Di Titta Gruppo
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