L’intervista in esclusiva per QMagazine dal Kosovo
Dieci anni fa, nella primavera del 2008, il Kosovo diventava indipendente. L’ex provincia serba si dotava allora di una nuova costituzione, repubblicana, moderna e in linea con i principi della comunità internazionale, che aveva seguito da vicino la nascita del nuovo Stato. La nuova legge fondamentale assicura dunque l’uguaglianza di tutti davanti alla legge e l’assenza di discriminazioni di ogni tipo, comprese quelle legate all’orientamento sessuale. Nella realtà, tuttavia, la comunità LGBT del più giovane paese europeo vive ancora nascosta, vittima spesso di attacchi e discriminazioni. Al punto che, se il primo Gay Pride tenutosi a fine 2017 si è svolto senza incidenti, un recente studio del National Democratic Institute sullo stato delle comunità LGBT nei Balcani dipinge una quotidianità ben più critica: l’81% degli intervistati in Kosovo afferma di aver subito degli abusi psicologici per via del proprio orientamento sessuale, mentre il 29% è stato vittima di attacchi fisici.
Il ruolo delle autorità
«La legislazione è una cosa, l’implementazione un’altra», si sente spesso ripetere a Pristina. Nonostante le premesse di uguaglianza e modernità, infatti, le persone che vivono apertamente la propria omosessualità nella capitale del Kosovo sono meno di dieci. Ismail Cakolli è uno di questi. Ex presentatore della televisione pubblica nazionale (RTK), Ismail ha fondato il Gender Equality Movement (GEM), un’associazione impegnata nella lotta all’omofobia. Secondo la sua testimonianza, una grande parte della responsabilità per l’attuale situazione in Kosovo è da ricercarsi nel ruolo svolto dalle autorità ed in particolare dalla polizia. «Il problema più grande è che fino ad oggi nessun caso di discriminazione basata sull’orientamento sessuale è arrivato in tribunale», racconta Ismail. Lui stesso, quando si è recato alla polizia per denunciare un buttafuori che gli aveva impedito l’ingresso in un bar perché gay, si è visto deriso dagli agenti.
Non è andata diversamente a Lola Syla quando, nel 2014, ha deciso con il suo collettivo artistico «Haveit» (formato da quattro donne) di pubblicare la foto di un bacio saffico per la giornata di San Valentino. «L’idea di era venuta in un bar qualche giorno prima», ricorda Syla, «Ci siamo dette che tutti stavano preparando i propri festeggiamenti, mentre le persone LGBT non possono nemmeno tenersi per mano in strada. Così siamo uscite e abbiamo scattato quella foto». Condivisa sui social network e sul portale regionale Balkan Insight, l’immagine ha attirato tanti messaggi di supporto, ma anche centinaia di critiche e minacce. «Eravamo davvero spaventate», ricorda Syla, «Siamo andate alla polizia ed erano già al corrente della foto, perché qualcuno ci aveva denunciate per esserci baciate in pubblico. Loro hanno ascoltato la nostra, ma la loro domanda principale è stata se eravamo davvero lesbiche». Ed il consiglio finale delle forze dell’ordine è stato quello di eliminare la foto.
Un problema di educazione?
Ma il comportamento delle autorità non è il punto di genesi dell’omofobia kosovara. Uno studio pubblicato a fine 2017 dall’associazione Youth Initiative for Human Rights (YIHR) mostra come le radici dell’omofobia kosovara si trovino già nei libri di testo scolastici. Alcuni manuali di Educazione civica associano infatti l’omosessualità a «disordini e comportamento criminale», mentre nei testi di Biologia si assicura che quest’orientazione sessuale «devia dal comportamento normale ed è nota come una forma deviante di comportamento». Non va molto meglio per quanto riguarda la presentazione del concetto di famiglia, descritta come «composta da due genitori, i loro figli e nella quale nessun problema si manifesta». Il rapporto di YIHR analizza in seguito che «le famiglie con un genitore solo, o composte da nonni e altri membri, o da coppie dello stesso sesso […] rimangono stigmatizzate come ‘incomplete’ o ‘disturbate’».
«Penso che le nostre scuole siano tutto tranne un luogo di formazione», conferma Agron (nome di fantasia), un ragazzo kosovaro di 23 anni, che racconta: «alle elementari, alle superiori, avevo dei professori che mi chiedevano cose come ‘Ma perché tieni i capelli così lunghi?’, oppure mi dicevano apertamente che ero ‘troppo effeminato’». «Mi ricordo di un giorno in cui in classe si stava parlando di diritti umani e la mia professoressa non voleva affrontare il capitolo sull’AIDS», ricorda Agron, «mi alzai e lessi quello che c’era scritto al riguardo sul libro. All’inizio, i miei compagni ridevano, ma poi finirono per ascoltarmi. Non capisco perché un prof dovrebbe vergognarsi di qualcosa che è umano. E’ biologia, è scienza». In un’altra circostanza, Agron si trovò a giocare un’intera partita di calcio, mentre dagli spalti tutta la classe lo chiamava «frocio» e nel silenzio del suo insegnante.
Verso un miglioramento?
Le testimonianze come questa sono purtroppo numerose, ma esistono anche delle eccezioni positive che fanno ben sperare per il futuro del Kosovo. Liendi Mustafa, ad esempio, ha trovato sostegno nei propri genitori quando ha spiegato loro il proprio orientamento sessuale. Non solo, Mustafa è anche apparso in Tv nell’ambito di un documentario sulla comunità LGBT. «Un’amica mi ha detto che il regista stava cercando una persone transessuale per un’intervista ed era proprio l’opportunità che stavo cercando per fare coming out», spiega Mustafa. Dopo la trasmissione, vista anche dai propri genitori, Liendi Mustafa ha ricevuto soltanto messaggi di sostegno e di congratulazioni per il coraggio del suo gesto. «Sto ancora aspettando le minacce!», dice scherzando.
Giovanni Vale e Jack Davies
Foto reportage di Kathrine Norsk
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