Michelangelo e il suo Ganimede per Tommaso Cavalieri
Ganimede, secondo la mitologia greca, era il bellissimo figlio di un principe troiano che, rapito da Zeus sotto forma di aquila, fu fatto diventare il coppiere degli dei, oltre che suo amante. A parlarne per primo è Omero nell’Iliade (5, 640) e troviamo il tema diffuso nell’arte dell’Atene del V sec. a. C. come a Roma, dove è presente in un bassorilievo in stucco della Basilica Sotterranea di Porta Maggiore (I secolo d. C.). È comunque Ovidio, nelle Metamorfosi (10, 155 – 161), a ribadire la natura sessuale di quel rapimento nella cultura romana. Nel Medioevo, quando le favole di Ovidio saranno moralizzate, il tema sarà spiritualizzato, cristianizzato e sarà associato principalmente all’innalzamento di un’anima verso Dio, così come anche Dante cita questo mito nel Purgatorio (IX, 19-24).
A questo ultimo significato si può infatti pensare osservando un dipinto fiorentino del ‘400 facente parte della decorazione di un cassone (Boston, Museum of Fine Arts), mentre Michelangelo (1475 – 1564), trattando il tema, si rifarà invece alla tradizionale lettura del mito che risale all’antichità.
L’artista, che da Firenze si spostò a Roma per lavorare per diversi pontefici, non fu mai denunciato per sodomia (quello che invece accadde a Leonardo da Vinci, Benvenuto Cellini e, in parte, Sandro Botticelli), ma le testimonianze che ci ha lasciato ci suggeriscono proprio che amò gli uomini, anche se ufficialmente si parlò sempre di amore spirituale.
L’artista crebbe e si formò nel clima neoplatonico mediceo dell’Accademia di Marsilio Ficino, dove si dava all’amore tra uomini una dimensione tutta spirituale e filosofica desunta dagli scritti di Platone. Michelangelo fu influenzato da questo ambiente (dove si parlò di “amore socratico”), ma anche dalle prediche di Girolamo Savonarola, il frate domenicano che arrivò a Firenze e che cercò di attuare una dura riforma dei costumi negli ultimi anni del ‘400. In quei tempi Firenze e l’Italia non erano ancora state scosse dalle tesi di Lutero, ma si avvertiva, soprattutto a livello delle istituzioni religiose, il bisogno di un ritorno alla purezza del messaggio del Cristianesimo delle origini, oltre che di costumi meno scandalosi e oltraggiosi. Savonarola, inoltre, si scagliava direttamente contro i sodomiti, e Firenze aveva la nomea di esserne la patria.
Nell’arte di Michelangelo convivono l’ideale pagano e quello cristiano. Il conflitto per l’artista è risolto grazie al Phoedrus di Platone, in cui si esalta un amore tra uomini puramente spirituale. Secondo il ragionamento adottato da Michelangelo, gli amanti dovevano rispettare il celibato, un po’ come quello degli ecclesiastici, i rapporti sessuali erano banditi. Questo è quello che si evince dalla sua biografia scritta dal fedelissimo discepolo Ascanio Condivi (pubblicata nel 1553, con il pittore ancora in vita), che presenta il suo maestro come un grande amante de: “la bellezza del corpo, come quello che otimamente la conosce, et di tal guisa amata, che appo certi huomini carnali et che non sanno intendere amor di bellezza se non lascivo et dishonesto, ha porto cagione di pensare et di dir male di lui”. Specificando in questo modo le dovute precauzioni da prendere in merito al rapporto di Michelangelo con la bellezza del corpo maschile, e forse cercando di mettere a tacere alcune voci che già denigravano l’artista.
Gli scritti (lettere e poesie) e i disegni di Michelangelo ci portano a supporre altro, soprattutto quelli indirizzati al giovane patrizio romano Tommaso Cavalieri, che il cinquantasettenne pittore incontrò quando di anni il romano ne aveva ventitré. Il rapporto tra i due e i relativi disegni che l’artista donò al Cavalieri sono ricordati tra gli altri da Giorgio Vasari nelle sue Vite, che ci narra anche di un’amicizia di Michelangelo con un giovane di nome Gherardo Perini (altri pupilli ricordati dalle fonti: Febo Dal Poggio e Cecchino Bracci).
Nelle lettere indirizzate al Cavalieri, pur sapendo che il “grandissimo, anzi smisurato amore” dell’artista (lettera del 28 luglio 1533) è da vedere come spirituale, non possiamo non avvertire una certa sensualità e una non celata ambiguità. Ciò è esplicitato nel disegno raffigurante Ganimede e l’aquila che Michelangelo realizzò per l’amato poco dopo averlo conosciuto nel 1532 (aveva trattato già il tema in un disegno oggi agli Uffizi). Qui il messaggio, soprattutto se letto attraverso il mito che si è scelto di utilizzare, assume delle chiare connotazioni erotiche nel rapporto tra le due figure. Ganimede è come in estasi in un abbandono che non solo non si oppone al dio rapitore, ma che sembra trasmettere una sensuale rilassatezza. Il grande uccello vola tra le nuvole con le ali spiegate, mentre con i suoi artigli afferra i polpacci del giovane, il quale stende le sue braccia sopra le ali dell’aquila in una sorta di più che metaforica penetrazione.
Non pochi critici hanno sostenuto quanto ciò sia molto evidente, soprattutto se si mette in relazione questo disegno con una lettera che l’arista scrisse al giovane dopo averglielo spedito (1 gennaio 1533), in cui alla fine esprime molto chiaramente i suoi sentimenti in una quartina: “Sarebbe lecito dare il nome│delle cose che l’uomo dona,│a chi le riceve: ma per buon│rispecto non si fa in questa”.
Erwin Panofsky, tra i maggiori teorici degli studi iconologici, ha insistito sul significato neoplatonico di amore gioioso e ideale (da Marsilio Ficino) del giovane coppiere degli dei disegnato da Michelangelo; così come La punizione di Tizio (Windsor Castle, Royal Library), l’altro disegno che l’artista donò al Cavalieri nel dicembre del 1532 (e che come scrive Vasari raffigura l’eroe mentre “l’avvoltoio gli mangia il cuore”), viene invece interpretato come il simbolo delle pene dell’amore. Le due facce della medaglia.
Negli stessi anni Michelangelo stava realizzando una scultura (probabilmente per il complesso della Tomba di Giulio II) nota come il Genio della Vittoria (oggi a Firenze, Palazzo Vecchio). Raffigura un giovane che appoggia un suo ginocchio sopra un uomo rannicchiato ai suoi piedi in atteggiamento di sottomissione. Dominique Fernandez, saggista e romanziere francese che si occupa da tempo del rapporto tra arte e omosessualità, ha visto la logica di potere tra le due figure come il riflesso dell’anziano Michelangelo vinto e soggiogato dalla bellezza e dall’amore del giovane Tommaso, tanto più che l’uomo accovacciato ha di certo le sembianze dello stesso artista. Forse non proprio a caso Michelangelo conclude un sonetto dedicato al giovane con questa terzina: “Se vinto e preso io debbo esser beato,│ maraviglia non è se, nudo e solo,│resto prigion d’un cavalier armato”.
Nulla sappiamo sulla vera natura della relazione tra il pittore e il giovane amico, se non che il 18 febbraio 1564, giorno della morte di Michelangelo, il Cavalieri (che si era sposato qualche anno dopo aver conosciuto l’artista) sarà ancora al suo capezzale nella casa di via Macel de’ Corvi a Roma.
Quando successivamente Michelangelo Buonarroti il Giovane, il nipote del pittore, si preoccuperà di pubblicarne le poesie, quelle per il Cavalieri (e per altri giovani) saranno “corrette”: dove il soggetto dell’amato era maschile fu trasformato in femminile, forse per evitare che le malelingue continuassero a parlare.
Il disegno di Michelangelo ebbe un grande successo e ne furono tratte numerose stampe che diffusero questa interpretazione del tema mitologico con un carattere fortemente omoerotico. Un’interpretazione ambigua, quanto esplicita, di una tema della letteratura antica ancora possibile prima che iniziasse il Concilio di Trento, prima che tutto cambiasse e che la chiesa cominciasse a censurare più sistematicamente l’arte cattolica per allontanare e scongiurare ogni accusa di vanità che le si potesse attribuire (come fu censurato Il Giudizio Universale della Cappella Sistina dell’artista, di cui furono coperte le nudità). Ma il clamore delle stampe di Michelangelo fu tale che travalicò i confini italiani e arrivò in tutta Europa. Rembrandt Harmenszoon van Rijn (1606 – 1669), genio olandese della pittura del ‘600, diede del tema un’interpretazione ironica, ma moralistica. Egli, figlio di un mugnaio appartenente alla Chiesa riformata olandese, preferì correggerne il tono italiano, tanto che Ganimede, che nel suo dipinto è un bambino e non un fanciullo, piange dalla paura e non pare per niente felice di essere stato rapito dall’aquila. Il pittore olandese ha in questo modo cancellato ogni riferimento all’eros, il piccolo Ganimede è così impaurito che non riesce a trattenere la minzione.