Si racconta che Giacinto, bellissimo giovane della Laconia, figlio del dio spartano Amicla e di Diomeda, fu amato dal dio Apollo e da Zefiro, personificazione del vento dell’ovest. Il giovane scelse Apollo e, a causa della vendicativa gelosia di Zefiro, finì presto i suoi giorni. Il mito greco di Giacinto (Υάκινθος) ci viene tramandato da diverse fonti, ognuna delle quali si discosta di poco dalle altre versioni. Tra le diverse opere letterarie classiche si ricordano: Biblioteca di Apollodoro, Descrizione della Grecia di Pausania e Le Metamorfosi di Ovidio, inesauribile e prediletto testo di riferimento per l’iconografia del mito.
Torniamo un istante indietro per vedere come si consumò la sua compianta morte: Apollo e Giacinto, nudi e col corpo unto d’olio d’oliva, erano intenti nel gioco degli anelli che consisteva nel far arrivare degli anelli in un palo piantato per terra (il lancio del disco secondo Ovidio, o ancora “un gioco da racchetta” secondo il poeta cinquecentesco Giovanni Andrea dell’Anguillara al quale si riferisce Giovanni Battista Tiepolo nel suo dipinto della metà del Settecento). Ed è proprio in quei momenti che Zefiro, con un soffio di vento, decise di deviare un anello che Apollo aveva appena tirato per farlo arrivare al giovane che, colpito, morì. Dal sangue del giovane nacque un fiore di color rosso porpora che Apollo chiamò Giacinto e sul quale incise la disperata esclamazione di dolore “AI”.
Giacinto era il protagonista delle Giacinzie, solenni feste celebrate dagli spartani nella vicina città di Amicle, secondo il mito fondata dal padre di Giacinto. Erano delle importanti feste dedicate alla natura che segnavano il passaggio dalla primavera all’estate, oltre che dalla morte alla vita, Giacinto che risorgeva come fiore. Nell’arte l’iconografia mostra spesso Apollo e Giacinto insieme e, non rara, è la ripresa in epoca moderna in incisioni italiane della prima metà del Cinquecento come le stampe di Marcantonio Raimondi e Jacopo da Caraglio, o ancora in affreschi come quelli della celebre Galleria di Annibale Carracci nel Palazzo Farnese di Roma dei primissimi anni del Seicento, dove il dio conduce il giovane al cielo. Nello stesso luogo, dopo qualche anno, Domenichino dipinse invece la morte del giovane con il dio piangente a compiangerla.
Il Museum of Fine Arts di Boston custodisce un interessante piatto del V secolo a. C. in cui viene mostrata anche un’altra iconografia legata al giovane Giacinto, quella in cui Zefiro lo rapisce in volo. In questo piatto (e in modo più esplicito in frammenti di un altro oggi conservato nello stesso museo) il rapimento è dichiaratamente erotico.
Di Calogero Pirrera
Cover: Zefiro rapisce Giacinto, coppa attica a figure rosse (500 – 450 a. C.), Boston, Museum of Fine Arts
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