La storia di Giuditta è narrata nell’omonimo libro deuterocanonico del Vecchio Testamento e mescola fatti appartenenti a epoche diverse, sopprimendo la dimensione temporale. Si racconta l’assedio della città di Betulia ad opera delle truppe di Oloferne, generale al servizio di Nabucodonosor, re degli Assiri. Quando i betuliani, stremati dalla fame, chiedono di capitolare, entra in scena Giuditta.
L’eroina dall’emblematico nome (in ebraico yehûdît significa infatti giudea), spogliatasi delle vesti vedovili e indossati gioielli ed uno splendido abito da festa, si accinse a raggiungere il campo nemico in compagnia della sua ancella Abra. Poi si fece accogliere da Oloferne fingendo di volerlo aiutare, ma una notte, rimasta sola con lui dopo un banchetto, approfittò della sua ebbrezza per tagliargli la testa che consegnò ad Abra, in attesa fuori dalla tenda del generale.
Quindi le due donne la deposero in un sacco e raggiunsero Betulia prima dell’alba per mostrarla al popolo. In questo modo Giuditta suggerì di schierare gli armati come per sferrare un attacco. Quando gli Assiri se ne accorsero, andarono a svegliare Oloferne e, trovando il suo corpo acefalo, sbigottiti, cercarono di scappare, ma furono massacrati dagli Ebrei.
Il tema dell’eroina biblica si rivela uno dei più frequentati tanto dalle arti visive quanto dalla letteratura di tutti tempi ed è stato rappresentato sui palcoscenici di strada così come nelle opere teatrali. L’eroica Giuditta fu inserita in affreschi e miniature medioevali dove era associata alle Virtù che schiacciano i Vizi, incarnati da eretici o tiranni. La legittimità del gesto compiuto da Giuditta, che da sola riesce a liberare il suo popolo, ha indotto ad associare la sua figura anche alla Giustizia, come nel caso dell’affresco, oggi staccato e conservato a Venezia, nella Galleria Giorgio Franchetti alla Ca’ d’Oro, dipinto da Tiziano per il Fondaco dei Tedeschi nel 1508.
Da li a poco, col richiamo all’ordine della Controriforma, della sua storia si preferirà rappresentare, invece, il momento di maggior tensione, cioè lo sgozzamento del generale assiro, e maggiormente verrà esaltata la valenza cristiana di tale gesto. Così la Giuditta del Caravaggio lo compie proprio davanti agli occhi di tutti. La pittura cinquecentesca nel trattare il tema si era infatti limitata ad allusioni di ante o di post factum, mentre nel dipinto del Merisi la giovane Giuditta è sul punto di recidere il capo di Oloferne, raffigurato per la prima volta nel momento del trapasso quando, cosciente della propria fine, volge gli occhi verso l’alto. Il suo volto è colpito da una luce che, al di sotto della tenda rossa, penetra nell’interna oscurità.
Erano gli ultimi anni del Cinquecento e le chiese romane si stavano riempiendo di opere raffiguranti le torture inflitte ai martiri. Nonostante le censure controriformistiche, si puntava, infatti, sulla forza delle immagini, da sempre considerate Biblia pauperum. Nel dipingere la sua vicenda, in precedenza si era preferito presentare l’eroina in una sorta di trionfo con la testa del generale, in cui erano da ricercare sofisticati aspetti teologici o simbolici.
Per giustificare gli aspetti crudi inseriti all’interno di questa tela, alcuni critici hanno fatto riferimento all’angusto clima romano dell’epoca, in cui avvennero esecuzioni capitali come quelle di Beatrice Cenci (1599) e di Giordano Bruno (1600), ma esse hanno più valore di esempi della condizione di terrore della Roma riformata che non di giustificazione della scelta caravaggesca.
La Giuditta, commissionata al Caravaggio dal banchiere ligure Ottavio Costa (che la cita nel proprio testamento del 1632 e che è ricordata anche da Giovanni Baglione nella sua biografia del pittore), è la prima opera in cui l’artista si cimenta in soggetti drammatici. Questo nuovo modo di fissare sulla tela un racconto biblico influenzerà notevolmente le rappresentazioni dei pittori contemporanei. Essi arriveranno ad imitarne non solo l’atmosfera ma anche lo schema compositivo, variando soltanto qualche elemento, come la posizione assunta dall’ancella Abra. Basta osservare la malinconica Giuditta del Valentin (La Valletta, National Museum), la Giuditta di Biagio Manzoni (Pesaro, Banca Popolare dell’Adriatico) o due delle versioni di Artemisia Gentileschi (rispettivamente a Napoli, Museo di Capodimonte e a Firenze, Galleria degli Uffizi).
Altri artisti nella Roma del tempo dipinsero Giuditta, ma senza la forza caravaggesca; alcune opere presentano l’eroina piuttosto svestita – come si nota in quella del Baglione (Roma, Galleria Borghese) – ma restano ancora legate a topoi cinquecenteschi, nei quali la drammaticità dell’evento è quasi accennata. Orazio Gentileschi, amico del Caravaggio (con cui condivise anche un processo per aver scritto delle poesie offensive nei confronti del Baglione) lasciò numerose versioni del tema. Per alcune scelse di rappresentare il momento successivo all’uccisione di Oloferne, forse memore della versione affrescata da Michelangelo nella Cappella Sistina, in cui l’eroina si accinge a fuggire portando con sé la testa di Oloferne.
Caravaggio è molto fedele al testo biblico, fatta eccezione per l’introduzione di Abra dentro la tenda (qui vecchissima, mentre tradizionalmente è raffigurata giovane). Il corpo del generale assiro che sta per essere decapitato si trova in avanti, sprofondato nel letto, colpito da una forte luce che viene dall’alto. La fragile Giuditta appare sorpresa e sconcertata, la sua forza è sicuramente condotta dal volere di Dio, per questo il pittore la descrive quasi estranea all’evento, come se solo in quel momento comprendesse l’entità del ruolo assegnatole. Il genio del Caravaggio non si limita strictu sensu ad una corretta trasposizione del testo biblico, ma vi inserisce anche aspetti dottrinali.
La luce violenta che dirompe nel quadro allude a quella divina che guida la mano di Giuditta, rappresentazione simbolica della Chiesa, ispirata da Dio e pronta a sconfiggere la minaccia dell’eresia impersonata da Oloferne. In questa lettura trova giustificazione anche l’inserimento di Abra che, come simbolo dell’umanità corruttibile e passibile di vecchiaia, osserva stupita la scena. L’opera, oltre a richiamare il gesto della Vergine che sconfigge il demonio-serpente, introduce la morale controriformistica: Dio con la sua Grazia soccorre l’umanità, liberandola dal male per mezzo della Chiesa.
Questi significati simbolici sono accentuati in una seconda versione del periodo napoletano di Caravaggio, che conosciamo grazie a due copie antiche, come quella della Collezione Intesa Sanpaolo e attribuita a Louis Finson. In essa Oloferne è descritto con l’aspetto di un demone, la vecchia Abra (posta al centro e non all’estrema destra del dipinto) pare più affaticata ed ha addirittura un gozzo nella gola, mentre Giuditta, in abiti vedovili e priva della sensualità della precedente versione, sembra essere colta in un raptus, quasi stesse per compiere un’azione per mano di qualcun altro. Nel periodo di composizione del dipinto l’artista, a seguito del rifiuto della Morte della Vergine e soprattutto a causa della condanna a morte in contumacia comminatagli per aver partecipato a una rissa conclusasi con un omicidio, era scappato da Roma. Perciò forse si può leggere nella tela un riflesso della propria condizione di condannato, costretto a lasciare la città in cui aveva raggiunto il successo, ma nella quale era stato pure coinvolto in intrighi e delitti. Insomma, il tono mesto e luttuoso di questo dipinto nasconde, probabilmente, un ripensamento sulla propria condizione ed il bisogno di umana comprensione.
Ormai da tempo si insiste sull’evidente carattere autobiografico riscontrabile nelle versioni di Giuditta dipinte da Artemisia Gentileschi. La Giuditta di Capodimonte, realizzata nei primi anni dieci del Seicento quando Artemisia abitava ancora nella romana casa paterna (intorno al 1620 la pittrice ne realizzò un’altra versione per Cosimo II Medici, oggi agli Uffizi) colpisce per la forte tensione drammatica che riesce a trasmettere.
Il dipinto oggi a Napoli riproduce quasi identico lo schema della tela caravaggesca, sicuramente nota ad Artemisia che da essa trae la scelta del momento narrativo e la disposizione dei personaggi, pur inserendo la giovane ancella Abra tra Giuditta e Oloferne. La Gentileschi dipinge una formosa Giuditta, elegantemente abbigliata, nell’atto di sgozzare il generale con una possente spada, aiutata dall’ancella che lo blocca al letto. I rivoli di sangue sporcano le lenzuola. La crudezza della scena ha indotto spesso a porla in relazione con la violenza subita da Artemisia ad opera del pittore Agostino Tassi, collaboratore del padre.
Tuttavia, sebbene gli atti giudiziari riportino l’accusa di stupro nei confronti del Tassi, non è chiara la natura della relazione instauratasi tra i due già un anno prima del processo del 1612. Tassi le aveva proposto di sposarla, ma in realtà non avrebbe potuto farlo perché regolarmente coniugato. Quindi la violenza di Giuditta verso Oloferne è stata talora interpretata come una sorta di riscatto femminile nei confronti della violenza maschile, oppure come la vendetta di una donna a cui era stata fatta una fallace proposta di matrimonio. L’opera si fa infatti risalire agli anni del processo contro il Tassi.
Forse a quel tempo Artemisia lo amava o, sdegnata dal suo comportamento, già non lo amava più. Comunque la critica femminista e quella psicoanalitica hanno puntato molto su questi aspetti della sua vicenda personale. In effetti, la figura di Abra che concorre all’omicidio, la forza dell’eroina e lo sguardo attento di entrambe (secondo Roland Barthes simile a quello di due lavoranti sul punto di sgozzare un porco), potrebbero essere elementi che corroborano certe tesi critiche, ma è possibile affermare che abbia ragione chi consiglia di mitigarne l’importanza, pensando ad Artemisia prima di tutto come pittrice. Nel volto di Giuditta è stato riconosciuto un suo autoritratto – come pure in tante altre sue opere – e sono state fatte supposizioni per avvicinare il volto di Oloferne a quello del Tassi, tuttavia è giusto dare merito ad Artemisia come artista, quindi elogiare le sue capacità espressive in questo dipinto.
Prendendo spunto dalla versione caravaggesca, Artemisia è riuscita infatti a creare un’opera di intensa drammaticità. Ad esempio, l’incrocio dinamico riscontrabile tra le braccia delle tre figure e le cosce di Oloferne, attira l’attenzione verso l’atto che si sta consumando in questo interno buio. Inoltre, rispetto al quadro del Caravaggio, la violenza è qui più accentuata, specialmente per la scelta di porre al centro della scena la mano possente di Giuditta che sta compiendo la sua missione, mentre la spada, anche se leggermente inclinata verso sinistra, taglia la grande tela in due parti.
Intorno al 1615 la Gentileschi realizzò un’altra Giuditta, ora alla Galleria Palatina di Firenze, sicuramente prendendo spunto da una delle opere dipinte dal padre sul medesimo soggetto. Qui la drammaticità è da ricercare soprattutto negli sguardi delle due donne che si volgono al di là della tela e nell’urlante maschera dipinta sul pomello dell’impugnatura della spada, brillante come i gioielli della vedova ebraica.
Tra gli altri artisti in mostra: Jacopo Tintoretto, Lavinia Fontana, Giuseppe Vermiglio, Pietro Novelli, Johann Liss, Bartolomeo Manfredi, Mattia Preti, Guido Cagnacci e Cristofaro Allori con la sua famosissima Giuditta, una delle opere più copiate del Seicento italiano.
Caravaggio e Artemisia: la sfida di Giuditta. Violenza e seduzione nella pittura tra Cinquecento e Seicento
Mostra a cura di Maria Cristina Terzaghi
26 novembre 2021 – 27 marzo 2022
Gallerie Nazionali di Arte Antica – Palazzo Barberini
via delle Quattro Fontane 13, Roma
Giuditta decapita Oloferne, 1599 circa
Olio su tela, cm 145×195
Roma, Gallerie Nazionali di Arte Antica – Palazzo Barberini
Giuditta decapita Oloferne, 1627-1629 circa
Olio su tela, cm 160×141
Courtesy Valletta, Heritage Malta – MUŻA, National Community Art Museum
Giuditta decapita Oloferne, 1610-1615
Olio su tela, cm 108×170
Loaned courtesy of The Klesch Collection
Giuditta decapita Oloferne, secondo-terzo decennio del XVII secolo
Olio su tela, cm 139×106
Collezione Intesa Sanpaolo
Giuditta consegna la testa di Oloferne alla fantesca, 1608
Olio su tela, cm 220×150
Roma, Galleria Borghese
Giuditta decapita Oloferne, post 1607
Olio su tela, cm 140×161
Collezione Intesa Sanpaolo
Giuditta e la fantesca con la testa di Oloferne, 1621-1624 circa
Olio su tela, cm 136,5×159
Hartford, Wadsworth Athenaeum Museum of Art, CT. The Ella Gallup Sumner and Mary Catlyn Sumner Collection Fund
Giuditta e la fantesca con la testa di Oloferne, 1608-1609 circa
Olio su tela, cm 136×160
Oslo, The National Museum of Art, Architecture and Design
Giuditta decapita Oloferne, 1612 circa
Olio su tela, cm 159×126
Napoli, Museo e Real Bosco di Capodimonte
Giuditta e la fantesca con la testa di Oloferne, 1615 circa
Olio su tela, cm 114×93,5
Firenze, Gallerie degli Uffizi, Palazzo Pitti, Galleria Palatina
Giuditta con la testa di Oloferne, 1610-1612 circa
Olio su tela, cm 139×1146
Firenze, Gallerie degli Uffizi, Palazzo Pitti, Galleria Palatina