Sulle tracce dei Beatles per scoprire noi stessi: un itinerario sulle orme dei Fab Four, pieno di curiosità sulla loro vita. Un racconto appassionante delle fatalità da cui germoglia la parte migliore dell’essere umano.
A Liverpool in inverno il cielo è plumbeo. Dal waterfront si sollevano sferzanti folate di vento e acqua fredda. C’è da reggersi ai muri dai mattoni rossi affumicati dai ricordi di tempi duri e dal livore che è stato, prima che la città fiorisse scintillante e moderna. Reggersi per non cadere, o ripararsi nella cattedrale per sentirsi al sicuro.
Poi, nella darsena, un sottomarino giallo, albergo per turisti, ci strappa un sorriso. Poco più in là, una barca dipinta con tutti i colori di Peter Blake divide l’acqua mutandone il grigio, riflettendo l’eco della più grande rivoluzione giovanile del mondo: i Beatles. Sono nati qui, in questa città della provincia inglese. Come quei fiori che crescono tra due lastre di cemento. Se a Londra vi siete fatti la foto in Abbey Road sulle strisce, siete lontani da questo itinerario.
Per sentire il cambiamento che questi quattro ragazzi di provincia hanno apportato alla vostra stessa storia, dovete andare a Liverpool. Non per capire, ma per essere toccati, farvi delle domande sulla inesorabile catena di coincidenze che possono presentarsi nella vita, e per comprendere che oggi probabilmente molte cose non sarebbe state possibili senza loro. Dalla rivoluzione Beat ai video musicali, dal mescolarsi del rock con il pop -scelta frutti – fera di antagonismi giganteschi come quello con i Rolling Stones – ai concerti dei gruppi dal vivo che prima dei Beatles praticamente non esistevano; dal concetto evoluto di fan per cui nacquero neologismi come “beatlesmania” all’inserimento della musica psichedelica – destinata a forgiare i Pink Floyd in un pensiero che abbatterà i muri -, dalle scoperte delle filosofie orientali allo sviluppo di una nuova arte moderna che essi stimolarono con le copertine degli album.
IL MAGICAL MISTERY TOUR
Prima di immergervi nell’imperdibile Museo della Beatles Story situato nell’area recuperata all’archeologia industriale denominata Albert Dock, l’ideale è il Magical Mistery Tour. Prende il nome dal road movie omonimo dei Beatles.
“Ogni mattina ci si alzava e chiunque poteva diventare protagonista, improvvisare, a seconda dei fan che ci incontravamo sulla strada” racconta Paul McCartney. Un po’come nella musica psichedelica ogni suono poteva entrare nell’armonico caos. Il pullman ha solo il nome del film, è un pretesto. Farete tappa nelle case dei quattro Beatles. Molto simili quella di Ringo Starr, oggi abbandonata, e quella di George Harrison, dove una volta non c’era nemmeno il bagno. Paul McCartney viveva in un cottage decisamente migliore. Casa a schiera su due livelli anche per John Lennon, oggi comprata da Joko Ono, restaurata con le scritte di “Immagine” sugli scalini, ma tenuta chiusa. Paul e John si incontrano in parrocchia alla Woolton Parish Church. È ancora lì, identica, come descritta nella canzone Eleanor Rigby. Uno straziante violino vi accompagna al piccolo cimitero affiancato alla chiesa dove predicava Padre Mckenzie e John faceva il boy scout. Con Paul osservavano “tutta la gente sola”. Entrambi erano cresciuti senza padre. John anche con una madre che si era rifatta una vita e l’aveva lasciato con sua sorella. Non l’ha nutrito, imboccato, accompagnato a scuola, ma gli ha insegnato a suonare il banjo regalandogli il valore immenso della musica, mentre la zia, che lo aveva nutrito, imboccato, accompagnato a scuola, diceva a John: “con quella chitarra non ti guadagnerai mai da vivere”.
John Lennon sul retro di un camioncino con la sua band, i Quarrymen, per la prima volta si esibì sul retro della chiesa. Aveva 16 anni Il quattordicenne Paul McCartney, rimase incantato. “Nessuno può suonare Twenty Flight Rock in quel modo” dice Paul. “Ma io ti conosco… andiamo alla stessa scuola…”. Passavano entrambi per Penny Lane. Oggi, quando la attraversate ascoltando la canzone omonima, sarete di nuovo con loro: il barbiere, la banca… Tutti quei personaggi di una periferia brulicante vi tornano alla mente. Poco più in la c’è Strawberry Field, il giardino dell’orfanotrofio. Bastava scavalcare il cancello rosso per entrare in un mondo di fantasia per John. “A scuola con la mia banda mi divertivo a rubacchiare qualche mela, poi ci arrampicavamo sui sostegni esterni dei tram che passavano per Penny Lane e ci facevamo dei lunghi viaggi per le vie di Liverpool”.
MUSEO DELLA BEATLES STORY
Al Museo della Beatles Story scoprirete invece l’alchimia che ha dato luogo a un fenomeno storico e come alcune casualità siano state decisive. Allan Williams, racconta: “Se non vi ricordate il mio nome, ma vi suona in qual- che modo, è perché io sono noto come colui che ha rifiutato di fare da manager ai Beatles, dopo aver investito sul loro esordio. Ero convinto che non avrebbero fatto mai nulla di buono”. Un apparente fallimento senza il quale non avrebbero deciso di fidarsi ciecamente di Brian Epstein. Neanche lui sapeva di essere così bravo in un mestiere che allora ancora non esisteva. Era il figlio scapestrato del proprietario di un negozio di elettrodomestici di Liverpool. Il padre, persa ogni speranza sul suo futuro, lo aveva messo all’area strumenti musicali e dischi. Lì Brian aveva conosciuto tutti i membri dei Beatles. Fu il primo look maker e manager della storia, ma anche il filosofo, il fratello maggiore. Fu lui che gli fece vestire da futuri “baronetti”, che suggerì di inchinarsi alla fine dell’esibizione.
Fu decisivo nella grande occasione del provino della Emi. George Martin (anche lui agli esordi da talent scout) disse loro tutti i vincoli che li avrebbero legati alla casa di Abbey Road, un po’ incerto sul futuro ma rincuorato dall’entusiasmo di Brian. Alla fine disse: “Nessuno ha nulla da dire?” e George Harris rispose: “Sì, non mi piace la sua cravatta” (la registrazione è ascoltabile nel museo).
Altro incontro fatale quello con Pete Best, batterista. I Quarrymen si esibivano all’inizio alla Casbah locale di sua madre, e lui entrò a far parte del gruppo fino alla trasformazione in Beatles. Ma non si inserì mai veramente, biasimando le loro scelte. La Emi chiese la sua testa, voleva proporre un batterista di fama internazionale, ma i ragazzi di Liverpool volevano un ragazzo di Liverpool e la scelta ricadde su Ringo Starr.
Gli attriti di Amburgo con Pete non erano i soli. Influenzerà il gruppo in quel momento Astrid Kirchherr, fotografa e compagna di Stuart Sutcliffe bassista dei Beatles in quel momento. Questa ragazza, e il suo esistenzialismo alla Sartre, aveva un forte ascendente su John Lennon, ma ancora di più ne aveva Stuart. Un rapporto di simbiosi, una convivenza fra amore e odio, che faceva ingelosire Paul McCartney. Stuart era un artista tormentato, dipingeva, ma il basso non lo sapeva suonare. Era già fuori dal gruppo per una serie di litigi, quando morì per tumore al cervello. Fu una ferita immensa, mai colmata per i Beatles che lo misero come membro del gruppo attivo nella copertina del loro album Sgt. Pepper’s Lonely Hearts Club Band.
IL CAVERN CLUB
La grande tappa che da sola merita il viaggio, è il Cavern Club. Fermo nel tempo, identico ad allora, individua, durante l’annuale Beatles Week, le migliori cover band del mondo che si esibiscono qui ogni sera. Scendete dalla scala a chiocciola e vi ritrovate in questo tunnel dove si spina birra e si ascoltano le canzoni dei Fab Four cantate con il rigore dovuto. Questo nostalgico revival richiama qui persone da tutto il mondo a ballare. “All you need is Love” e ogni sera un coro di cinesi, indiani, tedeschi, russi, italiani, risponde all’unisono “paparapapà”. Fermi nel tempo giovani e anziani ribadiscono che per ogni nuova generazione il mondo è un luogo di aspettative e gusci di nostalgia.
IL FANTASMA DI JOHN
Dopo tutte le polemiche, i documentari, le liti ereditarie la giusta conclusione si trova alla fine del Museo sulla storia dei Beatles. Si divide nei percorsi dei singoli componenti del gruppo. Fino al bivio finale: Paul McCartney o John Lennon? E qui si fermano tutti esitando nel decidere da quale parte muoversi nella stanza. Ah come sarebbe stato bello non dover scegliere. Ma dalla parte di John c’è scritto “Non chiedetemi di una Réunion dei Beatles, altrimenti vi domando: tornereste sui banchi del liceo domattina? È stato un tempo meraviglioso, ma è finito”. Allora proseguite giungendo in un bianco paradiso in cui campeggiano le parole di “Immagine” e una serie di foto eteree di John Lennon. Un pianoforte a coda bianco esegue le note della canzone come se fosse sempre lui a toccare invisibile quei tasti “You may say I’m a dreamer. But I’m not the only one. I hope someday you’ll join us…”
E voi, anche se non siete fan dei Beatles, in quel momento vi sentite aprire il cuore alla gratitudine per questa carezza lasciata nella vostra esistenza, nella parabola infinita partita dai giardinetti di una parrocchia di minatori e pescatori, e che tuttora interminabile attraversa l’universo.
Di Letizia Strambi
Questo uno degli articoli presenti nelle versioni semestrali di QMagazine. Scaricala subito l’ultima al seguente link: https://bit.ly/3b8HCO9 per scoprire tutti gli altri contenuti.